Lizzano in Belvedere è un piccolo
paese dell’Appennino tosco-emiliano, piccolo ma pieno di storia, dominato dalla
mole della Pieve di S. Mamante, edificata fra il 1912 e il
1938 in sostituzione
di quella antica la cui fondazione risaliva al 753 ad opera di Anselmo del
Friuli, cognato di Astolfo, re dei Longobardi.
Biana: posto nella parte alta del
paese, Biana è un rione molto antico, già presente almeno dal Medioevo ed era
piuttosto popoloso; il nome Biana, di etimo ignoto, compare negli Estimi del
1475 e da documenti presenti nell’archivio della Pieve si apprende che era
circondato da castagneti di proprietà del Beneficio parrocchiale, che rimasero
in suo possesso fino alla morte di don Giulio Pacchi il 27 luglio 1897. Poiché
era un luogo piuttosto isolato, si prestava ad agguati e delitti: in archivio si
trova traccia di almeno due delitti passionali, compiuti ai danni di due giovani
donne alla metà dell’700.
Esistevano qui diversi casóni (essiccatoi
da castagne) pubblici, che potevano cioè essere utilizzati da chi non ne
possedeva uno proprio; tale consuetudine è proseguita fino agli anni ’20 del
Novecento. A proposito del nome della località, si possono fare alcune ipotesi:
da «biada» (foraggio) dal latino medioevale «blada»; da «bianca», il primo sonno
dei bachi da seta; da una radice longobarda «blaih», col significato di
«pallido, sbiadito»; o da «piana».
Esiste ancora una consèrva (ghiacciaia)
che fu utilizzata fino al secondo dopoguerra per conservare la neve invernale in
una grotta artificiale scavata nella roccia. La neve, pressata e coperta da
foglie di castagno o da paglia, si conservava fino all’estate, quando veniva
utilizzata per la conservazione di alimenti deperibili e per fare le prime
granite. Era di proprietà del macellaio Emilio Bartoloni. Di fronte alla
ghiacciaia c’era un sentiero, detto poi via del Fiorentino, che conduceva alla
casa dei fratelli Giuseppe e Cesare Guglielmi, due dei tre pastori rimasti a
Lizzano all’inizio del Novecento; l’altro era Giovanni Fiocchi, residente in
Ca’di Guido. Il sentiero proseguiva poi, in mezzo ai castagneti, fino alla
Pieve.
Nei pressi di Biana si trovano la via e il
castagneto detti Aserecchi, toponimo di etimo molto incerto: l’unica voce simile
è récchia, voce del toscano antico che indica una pecora che non ha ancora
figliato. Ma è più probabile che indicasse una zona piuttosto umida, dato che
potrebbe derivare anche dal verbo latino seresco, dal significato di
«asciugarsi» preceduto dall’a privativa, quindi «che non si asciuga».
Le famiglie che almeno dal 1500 hanno
trovato qui la loro origine e sono ancora presenti a Lizzano sono i Guglielmi e
i Camparri, detti, ancora alla fine dell’800, Camparotti.
Sant’Antonio: quest’area, così come la
si vede attualmente, è di costituzione relativamente recente, essendo nata
dall’abbattimento di alcune costruzioni antiche per aprire la strada attuale
intorno alla metà dell’800. Si presume che la vòlta che qui si trova immettesse
in un passaggio parallelo alle mura del castrum; tra l’altro, sull’edificio in
pietra visibile a destra della vòlta si scorge quella che sembra essere una
feritoia lobata, con funzioni di osservazione e difesa. La via prende il nome
dalla targa devozionale di terracotta murata sull’arco, raffigurante appunto s.
Antonio Abate. La casa Gasperini, detta anche Ca’ del Popolo, nel XVI secolo fu
costruita al di fuori delle mura del castrum, appoggiata ad esse.
Bargi:
questo rione periferico di
Lizzano deriva forse il suo nome dalla voce celtica «barga» che significa
capanna. Data la posizione favorevole a cavaliere sullo spartiacque tra i nostri
due fiumi, Silla e Dardagna, è possibile che già in epoca antica si fosse
insediato qui un piccolo nucleo abitato, tanto più che le testimonianze di una
cospicua presenza celtica sulle nostre montagne si fanno sempre più evidenti,
dalla lingua all’arte.
Sotto Bargi, in direzione nord-ovest, c’è
un ripido scoscendimento detto Fratta, toponimo presente solo qui sul territorio
e che in genere indica un terreno incolto e boscoso o anche una siepe di
confine; data però la presenza (che pare ormai accertata) di una cinta muraria a
Lizzano databile forse intorno al Mille, questa fratta potrebbe essere stata
«una fascia di terreno mantenuta ad arte fittamente boscosa ed intricata (A.
Settia, 1984)», una struttura difensiva naturale nota e diffusa nell’Italia
settentrionale a partire dal XII secolo.
Nella stessa direzione si trova Pra’di
Fórra (Pra’di Fuori): un’ipotesi è che tale nome derivi dal fatto che questo
podere si trovava al di fuori del castrum e della fratta, sua avanzata linea di
difesa. Se l’ipotesi fosse confermata, sarebbe quindi un toponimo molto antico.
Il Passetto:
quest’area, così come la si vede attualmente, è di recente costituzione, essendo
sorta nel periodo fra le due guerre, quando sotto la spinta del dinamico don
Alfonso Montanari il paese conobbe una notevole rivoluzione urbanistica a fini
soprattutto turistici. Gli interventi maggiori si ebbero a livello delle vie di
comunicazione: fu aperta infatti via III Novembre, la
strada centrale del paese, e furono chiuse
altre piccole strade interne. Quest’area era in origine una zona coltivata a
castagni, da attraversare per raggiungere Ca d’ l’Óvra (Casa dell’Opera) e
Fratta, sedi di terreni del Beneficio parrocchiale che venivano affittati per un
periodo di tre anni. Poco oltre si trova Bargi, su uno sperone roccioso che si
protende verso la vallata; si dice che qui si trovasse un fortilizio, di cui
però non rimane memoria.
Sassocchio:
la località attualmente fa parte dell’abitato di Lizzano, ma fino al periodo fra
le due guerre era considerata una frazione esterna al paese. È posto in
direzione nord sull’antica strada che saliva da Porretta attraverso Panigale, l’Albaióla,
che nel suo tratto lizzanese è detta La Serra. Il toponimo, presente negli
Estimi del 1475, è indicativo di una morfologia resa accidentata dalla presenza
di molte pietre erratiche e di piccoli affioramenti rocciosi.
La famiglia più prestigiosa di questo
rione fu la famiglia Scarlatti, che si estinse alla metà dell’800 per sole
nascite femminili; l’unico maschio divenne sacerdote e fu per molti anni
cappellano a Lizzano. Altra importante famiglia originaria di questo rione è la
famiglia Margelli, presente almeno dalla metà del ‘700. La famiglia Baruffi è la
più recente tra quelle che hanno abitato questo luogo: compare infatti nei
registri dell’archivio della Pieve solo dalla fine del XVIII secolo: un
esponente di questa famiglia, Domenico, era soprannominato «mastelletta», forse
perché costruiva tinozze e secchi. Una parte di questa famiglia si trasferirà
poi in Corniola intorno alla metà del 1800. Secondo Tito Zanardelli, autore
all’inizio del secolo di uno studio sui soprannomi di Lizzano, il soprannome di
quelli di Sassocchio era «I Matti».

La Pieve:
dedicata a San Mamante, martire di Cesarea del III secolo, è molto antica,
essendo stata fondata da S. Anselmo di Nonantola nel 753. Un’altra ipotesi è che
S. Anselmo procedesse solo a una ricostruzione di un edificio preesistente di
origine bizantina, essendo il territorio belvederiano a confine con l’Esarcato.
Bellissimo e molto importante il Delùbro, (visibile dietro l’attuale
campanile) che era il battistero dell’antica pieve: è l’edificio in pietra più
antico della Provincia di Bologna, risalendo alla metà dell’VIII secolo.
La chiesa attuale è stata
costruita dopo l’abbattimento di quella antica agli inizi del Novecento,
demolizione dovuta a grossi problemi di statica derivanti dall’essere stata
costruita su una falda acquifera di una certa portata, acqua che ancora sgorga
sotto il Delùbro.
Al suo interno sono
custoditi diversi resti della chiesa antica, tra cui due opere della scuola di
Guido Reni del 1632 e del 1634, pale di due altari laterali, e la pala
dell’altare maggiore con S. Mamante e S. Marco, datata 1620. Inoltre una
pregevole statua secentesca raffigurante la Madonna del Rosario e un bel
Crocifisso policromo tardo secentesco.
Borgopiatto:
deve il suo nome alla posizione ribassata rispetto alla piazza del paese. La
forma attuale è frutto di lavori di risistemazione della fine dell’800: prima le
case erano in minor numero e più piccole, addossate le une alle altre. Qui si
trovava il casóne di Federico Polmonari, in cui si radunavano i ragazzi per
ascoltare le fiabe narrate da Angelo Bartolai, abile folàio come Bonuccione
(Francesco Bonucci) che le narrava nel casóne della Còrniola. C’era anche il
forno della Carola Picchioni, che per modico compenso lo metteva a disposizione
di tutti: era necessario però procurarsi la legna e lasciare pulito per un
successivo utilizzatore.
La processione della
Triennale, istituita per ringraziamento dopo l’epidemia di colera del 1855,
aveva qui una delle sue tappe, con Ca’ di Guido, il Martignano, il Fondaccio e
la Piazza.
Tra le famiglie originarie di Borgopiatto
si ricordano i Polmonari, i Gaetani e i Martini, proprietari della casa più
grande di Borgopiatto; questi ultimi erano presenti qui almeno dal 1500, con
arca propria all’interno della Pieve. Un’esponente di questa famiglia, Rosalia,
fondò nel 1828 l’Asilo Martini (ancora esistente) nell’edificio che attualmente
ospita il Piccolo Hotel Riccioni. In questo edificio si trovava anche l’appalto,
negozio di generi vari.
S. Antonio:
secondo la tradizione moderna, la zona prende il nome da una maestà (edicola
votiva) che era qui presente fino al periodo fra le due guerre e che recava una
formella di terracotta invetriata raffigurante S. Antonio Abate, ancora visibile
murata nell’arco di uno degli ingressi alla piazzetta. Tale ipotesi sembra però
smentita sia dalla datazione della ceramica, non anteriore alla metà del XIX
sec, sia dagli studi più recenti, che hanno evidenziato la presenza in
quest’area di una «terra murata» che probabilmente era munita di una cappella
interna, forse dedicata a S. Antonio Abate quale protettore degli animali: per
proteggere il bestiame dalle scorrerie dei predoni lo si rinchiudeva nelle
piazzette, che in origine avevano il fondo a prato, non lastricato. Altri esempi
in zona sono Campiacióla a Vidiciatico e la piazzetta di Casale. Da qui passava
un torrente che fu coperto per permettere un più agevole passaggio sulla
Pianarina, la strada che scende dalla Pieve. Questo torrente compare nelle carte
del ‘700 e si pensa che costituisse il fossato della cerchia muraria del «castrum»
(ricetto) di Lizzano presso la porta nord. Più in basso, di fronte agli attuali
bar Mattioli e Cock’s, fu coperto alla fine dell’Ottocento per permettere il
passaggio della Strada Provinciale, per proseguire, scoperto, verso Sassocchio.
Il voltone sembra far parte anch’esso di una struttura difensiva, in quanto
mostra una feritoia.
I
terreni circostanti la piazzetta (orti e castagneti) erano in gran parte di
proprietà della famiglia Gasparini, una delle più prestigiose del paese (tanto
da avere un’arca propria nell’antica Pieve), che ha dato i natali a una stirpe
di notai presente nei documenti almeno dal XV secolo fino alla fine dell’800.
La Còrniola:
negli Estimi del 1475 questa zona è detta
Còrnia, con evidente riferimento alla presenza di una pianta di corniòlo, non
molto comune alle nostre quote. Non stupisca il genere femminile, che il nostro
dialetto ha conservato dal latino per i nomi di pianta.
La struttura urbanistica
di questo luogo è mutata nel tempo: in origine era un grande orto circondato da
siepi, interrotte ogni tanto da qualche edificio, sia abitazioni private che
edifici produttivi come stalle, fienili ecc. La maestà visibile, in origine al
centro della piazzetta, fu eretta da Luigi Baruffi e dalla moglie Maria
Miglianti, che qui risiedevano, e che intesero in tal modo testimoniare la loro
fede e implorare la benedizione divina sulla loro famiglia, ancora presente a
Lizzano. La casa visibile a fianco della maestà fu costruita alla fine dell’800
ed era detta Casa Bonucci.
La prima illuminazione pubblica, a
petrolio, fu accesa il giorno dell’Epifania del 1893: uno dei tre lampioni fu
posto in Còrniola, gli altri due uno in piazza e l’altro nella discesa al
Fondaccio (in fondo alla piazza attuale). La cura dei lumi era affidata ad
Antonio Baruffi e al figlio Onorato (Nóre), poi a Pompeo Vai e a Domenico
Lancioni. Nel 1901 furono aggiunti altri tre lampioni, uno al Fondaccio, uno in
Borgopiatto e uno in Ca’ di Guido, con ben tre anni di anticipo rispetto a
Bologna. La corrente elettrica era prodotta dalla centrale di Porchia.
Tra le famiglie originarie di questo rione
i Baruffi (di cui si è già detto a proposito di Sassocchio) e i Vai, presenti a
Lizzano almeno dal 1600. Qui abitava l’ostetrica del paese, la Carubina, col
marito Angelo Mattioli, detto Ang’létto dal balle perché le sparava grosse e non
voleva essere contraddetto; Ang’létto aveva installato un piccolo laboratorio di
meccanica in un locale adibito a bottega di fabbro, dove i Mattioli forgiavano i
chiodi a mano.
Questa piazzetta è sede
di diversi appuntamenti estivi per iniziative di vario genere, da mostre di
pittura a giochi per bambini, da serate culturali a concerti della banda di
Lizzano e del coro Monte Pizzo. Da qualche anno è gemellata con Ca’ Gherardi di
Vidiciatico.
Il Fondaccio:
deve il suo nome alla posizione ribassata rispetto alla parte centrale del
paese, un «fondo» in cui si raccoglieva acqua piovana; in effetti, era presente
un piccolissimo lago tra il Fondaccio e il Martignano, cancellato dai lavori per
la Provinciale alla fine dell’800. Il Fondaccio è presente nei documenti
d’archivio della Pieve quale sede, almeno dal XV secolo, di due fra le più
prestigiose famiglie di Lizzano, i Biagi e i Filippi, che diedero al paese
sindaci, sacerdoti, medici, notai e avvocati.
La sua posizione a
cavaliere della valle ne faceva un punto privilegiato d’osservazione in caso di
scorrerie di briganti e predoni. La struttura urbanistica del rione è stata
parzialmente modificata nel tempo: era probabilmente una piazzetta chiusa come
altre in paese, di cui resta solo il grande arco di accesso, recentemente
restaurato e portato alla luce; la diversità sta nel fatto che il Fondaccio
costituiva un nucleo a sé stante, non era inserito nel tessuto urbano originario
del paese. Il grande portale visibile sul muro di un’abitazione privata presenta
tutti i caratteri tipici di un’abitazione signorile del secolo XV: le iscrizioni
e la costruzione con pesanti bozze di arenaria non erano comuni in un’epoca in
cui le abitazioni della gente comune erano in gran parte costruite con materiali
deperibili. La tradizione popolare riporta della presenza in questo edificio di
un piccolo convento di suore.
Dagli Estimi apprendiamo
che qui c’era un grande podere detto «Il Moredo», per la coltivazione di
gelsi che contribuiva a rifornire l’industria della seta di Bologna tra XVI e
XVIII secolo. Il fatto che la parte sottostante il rione fosse a vocazione
agricola è testimoniato anche da un altro toponimo, Via della Spelta, che
conduceva ai campi coltivati con questa graminacea simile al farro e al grano.
Ca’ di Guido:
non è noto chi fosse questo Guido che ha dato il nome al rione. Quel che è certo
è che Ca’ di Guido è una delle parti più antiche del paese, le cui case sono
costruite sulla cerchia di quella terra murata che si va scoprendo in questo
periodo. Testimonianza di tale antichità è la casa-torre che sovrasta il
voltone: nel muro della casa a fianco si può vedere un bel portale
quattrocentesco emerso nel corso di lavori di restauro dell’edificio; la lunetta
in cotto, datata 1841, è opera di don Lorenzo Filippi, sacerdote e insegnante a
S.Lucia a Bologna (poi Liceo Galvani), nato nel 1783. La lunetta faceva parte di
una grande maestà che si trovava al centro della piazza e fu demolita ai primi
del Novecento.
Nella casa-torre c’era una tivà (stanza
del telaio) con un telaio a disposizione di tutte le donne che sapessero tessere
ma che non ne possedevano uno proprio. A sinistra dell’uscita dell’arco verso la
Piazza si trovava l’ufficio postale, diretto dall’Elena Filippi e dal fratello
Oreste. Di fronte c’era il grande forno dei Petroni, aperto anche ai privati.
A sinistra del Burgón
di gatti (buco dei gatti) c’è un voltone che ha il nome indicativo di
Sott’al Ca’ (sotto alle case): di fronte c’erano dei piccoli orti, uno dei
quali fungeva da ricovero per le pecore di Giovanni Fiocchi, sebbene fosse molto
piccolo e le povere bestie dovessero stare tutte strette.
La tradizione popolare
riporta che davanti al voltone di Ca’ di Guido fu sepolto un tale col vizio del
gioco; quest’uomo fu trovato morto, forse ucciso nel corso di una lite.
Ca’ di Guido era una
delle tappe delle Rogazioni mariane, introdotte a Lizzano da don Antonio
Margelli nel 1842; le altre località toccate erano il Fondaccio e la Piazza. Più
tardi fu anche una delle tappe della Triennale.
Qui è nato nel 1881 don
Achille Filippi, maestro elementare e poeta, autore di una monografia su Lizzano.
La grande casa visibile su un lato della piazzetta è Villa Lardi, dal
nome dell’ingegnere originario di Fanano che si trasferì qui con la famiglia
alla fine dell’800.
Tra le famiglie
originarie di Ca’ di Guido almeno dal ‘400 vi sono i Camparri (una parte dei
quali si trasferì poi in Biana), i Bonucci e una parte dei Filippi proveniente
dal Fondaccio.